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Home » Schiavitù, colonialismo e rivoluzione industriale — Perché la Gran Bretagna è diventata un Paese ricco

Schiavitù, colonialismo e rivoluzione industriale — Perché la Gran Bretagna è diventata un Paese ricco

Franco Leaf by Franco Leaf
27 Marzo 2022
in Generale
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Ambrose Evans-Pritchard per The Telegraph

Il “crimine della schiavitù” e la “storia del colonialismo” si son fusi in un’unica immensa atrocità. Da qui il ripudio di quattro secoli di conquiste europee e britanniche.

Ma gran parte di tutto questo non ha fondamento storico. E’ scontato che la collisione fra civiltà mondiali sia intrinsecamente distruttiva.

Molti asiatici, paradossalmente, sono più indulgenti di noi.

“Avete condiviso con il resto del mondo i vostri bei vantaggi. Avete condiviso il dono del ragionamento e noi abbiamo imparato molto da voi” — ha detto Kishore Mahbubani, il Profeta dell’Ascendenza Orientale e autore di “Has the West Lost It”? — “Se l’Occidente non ci fosse riuscito, anche noi non saremmo riusciti. Saremmo ancora in estrema povertà”.

Gli inglesi hanno avuto a lungo un “punto cieco collettivo” sulla “scala industriale” della “tratta degli schiavi” e sulle attività della “Royal African Company” — ma il successivo riscatto di Wilberforce e Pitt non ha chiuso la questione e la schiavitù non può essere considerata una “saga americana”.

La “tratta degli schiavi” era considerata inconcepibile anche dai “puritani”, ai tempi della Rivoluzione Inglese.

Una sentenza del Consiglio di Stato di Cromwell, nel 1650, proibì le spedizioni di schiavi dalle coste africane. 

Fu l’assolutismo degli Stuart a portare questa maledizione nella nostra vita nazionale — e a perseguirla sistematicamente — per procurarsi un reddito libero dalla dipendenza dal Parlamento.

Avremmo dovuto creare un “Museo Nazionale della Schiavitù” anni fa, davanti alla stazione metro di Elephant & Castle, che si dà il caso sia lo stemma della “Royal African Company” — ed è lì che dovrebbe trovarsi la statua di Edward Colston, non a Bristol.

Ciò che non è vero è la narrazione secondo cui il “Grande Arricchimento dell’Europa”, e della Gran Bretagna in particolare, fosse funzione del saccheggio, ovvero del trasferimento a somma zero delle ricchezze dei popoli sfruttati, a partire dal XVI secolo, per mezzo della violenza.

Questa versione degli eventi ha la causalità messa al contrario.

L’Europa ha raggiunto la supremazia perché ha avuto un decollo tecnologico ed economico come mai prima d’allora.

Le radici di tutto questo affondano in quello che possiamo vagamente chiamare il “Metodo Baconiano”: “interrogare la natura per scoprirne i segreti” (il metodo scientifico, semplicemente).

Lo storico israeliano Joel Mokyr in “The Culture of Growth” sostiene che ci siano state molte “fioriture” di tecnologia nel corso del tempo, ma si trattavano per lo più di forme incrementali del know-how già esistente — migliori mulini ad acqua, migliori collari per cavalli etc. — che non raggiunsero mai la “soglia dell’accensione”.

I flirt con il pensiero libero finivano per scontrarsi con la soppressione autocratica.

 

Queste “fioriture” erano di carattere diverso rispetto a quelle dell’”Età della Ragione” in Europa, dove il “mercato pluralistico delle idee” minava le soffocanti ortodossie del sistema unitario tomista.

Questa ribollente composizione — assieme all’irriverente volontà di sfidare la prassi consolidata — fu a sua volta resa possibile dal mosaico assai composito degli Stati, in lotta fra loro per tirare avanti, ma nessuno con un ascendente tale da poter reprimere il dissenso.

Il sacerdozio ideologico aveva perso il controllo sulla società.

La Gran Bretagna aveva in più una particolare variante.

“Le Origini dell’Individualismo Inglese” dell’antropologo Alan MacFarlane ha scavato in profondità nei documenti parrocchiali dei secoli XV-XVII, trovando i prodromi di una società moderna che in gran parte era già priva di “caste immobili” — da non confondere con le “classi fluide” — molto diversa, anche allora, da quella della maggior parte dell’Europa Continentale.

Era governata da “contratti e vincoli politici” con una notevole uguaglianza fra uomini e donne. Aveva valori ampiamente condivisi dall’alto verso il basso e, in generale, prevaleva lo Stato di Diritto.

L’Inghilterra si era già liberata dalla maledizione del “familismo amorale”, la mentalità tipica di “Cosa Nostra”, secondo cui la società è ostile e infida — quindi l’obbligo morale termina con la propria parentela.

Era un Paese in cui la maggior parte delle persone supponeva che gli altri fossero persone decenti e agiva di conseguenza su questa base.

È questa caratteristica nazionale di base — turbocompressa dai paralleli progressi dell’”Intellighenzia Europea” — che, a mio avviso, spiega perché la Gran Bretagna sia esplosa sulla scena mondiale nella tarda età elisabettiana, dopo esser passata attraverso Bacon e Newton, e da lì alla “spinning jenny”, al motore a vapore e all’elettricità di Faraday.

“La rivoluzione industriale britannica della fine del XVIII secolo scatenò un fenomeno mai sperimentato prima dall’ora, nemmeno lontanamente, da qualsiasi altra società”, ha detto il Prof. Mokyr.

Non fu un’avanzata preordinata, ma il risultato di una rara alchimia culturale.

Dietro il grande “balzo in avanti” c’era la Common Law, la sacralità del contratto, il rispetto dei brevetti e quell’eroina mai celebrata, la Società per Azioni, che distribuiva il rischio e permetteva il “fallimento creativo”.

Le dottrine commerciali di Adam Smith aprirono le menti al concetto di “ricchezza espandibile” e ci liberarono dalla psicologia estrattiva e inerte del mercantilismo. 

La “banca a riserva frazionaria” rese possibile un’espansione del credito senza precedenti mentre i mercati obbligazionari aumentarono enormemente la capacità dello Stato di sostenere lunghi sforzi.

La Banca d’Inghilterra regolava la liquidità del commercio con una sofisticazione direi moderna, anche se era il 1690.

Furono queste le fonti della prosperità britannica.

La “storia dell’imperialismo” viene oggi insegnata come una sorta di “catalogo degli oltraggi” — ma un modo così ristretto di vedere le cose non è affatto illuminante.

Ci sono troppe varianti perché si possa giungere a una conclusione definitiva.

Ho imparato la mia versione della storia ai piedi dello storico indiano Anil Seal, a Cambridge — e la storia che mi ha insegnato dice che fu l’Impero Britannico in India ad impadronirsi “della serratura, del magazzino e della botte” dell’allora Amministrazione Mughal.

Un insieme di stranieri che ne spostava un altro.

Si basava su alleanze con i Principi al potere, evolse attraverso molte iterazioni — ognuna delle quali molto diversa dall’altra.

L’obiettivo principale era il commercio e l’asservimento dei mercati, ma non quelli d’origine, notate bene.

A distanza di tempo, spetta quindi agli indiani giudicare la qualità morale dei Raj in tutti i suoi aspetti.

Dubito che gli agitatori scesi in piazza, decisi a demolire ogni traccia del colonialismo londinese, abbiano una buona conoscenza dell’argomento.

Tutte le grandi proteste hanno un obiettivo specifico: l’emancipazione cattolica, il voto alle suffragette o il “movimento per i diritti civili” degli Stati Uniti — che ha come obiettivo l’”architettura giuridica della segregazione razziale” che esisteva ancora negli anni ‘50 e nei primi anni ‘60.

Il movimento Black Lives Matter — e soprattutto le “proteste a sostegno” in Europa — è ricco di emozioni, ma frustrantemente sfocato al confronto con le grandi proteste del secolo scorso.

L’America ha lottato  mezzo secolo per superare l’eredità dell’ingiustizia razziale e i riflessi che hanno portato all’uccisione di George Floyd da parte della Polizia.

Questo è ciò di cui si occupava la Great Society di Lyndon Johnson. Il fallimento non è dovuto solo alla mancanza di volontà. È questo che rende il caso doppiamente triste.

Ma, a rischio di sembrare antiquato, sostengo che tutte le vite siano importanti. La società britannica dovrebbe diffidare di entrare troppo in profondità in questo tipo di politica razziale.

Un sistema sociale e politico che non badi al colore della pelle — tutti uguali agli occhi della Legge e delle Istituzioni Statali — ha richiesto molto tempo per essere implementato ed è un tratto distintivo delle moderne Democrazie Liberali.

Respingo l’argomento, oggi di gran moda, secondo cui la difesa di questo ideale sia implicitamente razzista, presumibilmente perché giustifica uno status quo fatto di sfruttamento, prendendo a prestito la dizione marxista.

Siamo passati dall’obiettivo delle “pari opportunità” a quello della “parità delle condizioni” e da lì alla Giurisprudenza dei “crimini d’odio”, con condanne carcerarie diverse a seconda del motivo razziale, arrivando al punto in cui tutto è filtrato attraverso il prisma degli interessi razziali e settoriali.

Che lo sappiano o meno, i fautori della società “ri-razzializzata” attingono alla strumentalità degli Imperi, per come si è sviluppata attraverso i secoli.

I sistemi imperiali gestiscono i calderoni etnici e religiosi con una panoplia di codici speciali, protezioni, leggi e classificazioni.

Un tale “metodo di governo” è contrario ai valori liberali. Rischiamo di dover chiudere il cerchio.

————

Link Originale: https://www.telegraph.co.uk/business/2020/06/17/four-hundred-years-british-economic-history-have-reduced-crass/

Scelto e tradotto da Franco

*****

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