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Home » Al momento dell’Armistizio, l’Italia era in una posizione fortemente creditoria verso la Germania.

Al momento dell’Armistizio, l’Italia era in una posizione fortemente creditoria verso la Germania.

Franco Leaf by Franco Leaf
5 Agosto 2021
in Generale
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Redazione:

Abbiamo già parlato nell’articolo “L’euro dei Nazisti e il Nostro” — https://www.mittdolcino.com/2020/04/25/leuro-dei-nazi-e-il-nostro/ — del sistema di clearing della Germania di Hitler.

Un insieme di accordi bilaterali con i paesi-partner, volti ad equilibrare in modo specioso debiti e crediti con ciascuno di essi.

Quello che non tutti sanno è che l’Italia, al momento dell’Armistizio, era in una fortissima posizione creditoria.

Ce lo racconta “G. Aly, Lo Stato Sociale di Hitler, Einaudi, Torino, 2007, pagg. 171-74”. 

Nell’Accordo di Parigi del 1947 l’Italia s’era impegnata con gli Alleati, “spintaneamente”, a non chiedere “riparazioni di guerra” alla Germania e ad accettare al contempo le note e drammatiche condizioni.

Ma i debiti di cui ci parla G. Aly non sappiamo se possano essere definiti “riparazioni di guerra”, trattandosi di una situazione debitoria fra Stati allora “indipendenti” — e nemmeno se fu per questa ragione che  il “London Debt Agreement” del 1953 (dimezzamento dei debiti della Germania) fu fatto ratificare anche dall’Italia, seppur solo nel 1966.

In questa sede ci basta sottolineare il trattamento cui l’Italia — seppur la Repubblica Sociale Italiana — fu sottoposta dagli “alleati” tedeschi.

Ed il pensiero va spontaneamente a come siamo stati trattati, oggi e ancora una volta, dai (che cosa?) tedeschi.

In ogni caso, l’Italia il suo “debito di guerra (monetario e territoriale) lo pagò integralmente, secondo gli Accordi firmati a Parigi.

————

G. Aly: “Lo Stato Sociale di Hitler”

Nel settembre del 1943, subito dopo l’occupazione tedesca e la fondazione della “Repubblica Sociale Italiana”, il Ministro degli Esteri di Berlino chiarì per iscritto che tipo di rapporto ci sarebbe stato fra “costi di occupazione” e “compensazioni di clearing”.

I diplomatici sapevano evidentemente che ciò che stavano facendo era contrario alle norme del Diritto Internazionale e disposero che la lettera con le loro istruzioni non dovesse essere “per nessuna ragione inoltrata ad altri in originale”.

Vi era scritto:

“La situazione militare ci costringerà a prelevare dal territorio italiano e a immagazzinare in Germania prodotti finiti e materie prime in una quantità tale da rendere impossibile la compensazione attraverso il clearing.

Il pagamento di questi beni dovrà essere coperto essenzialmente ricorrendo ai contributi per gli “oneri di guerra” che il Governo Italiano metterà via via a disposizione, mentre la reimpostazione del clearing [quale era esistito ai tempi dell’Asse] assumerà il carattere di un sistema aggiuntivo di compensazione e mascheramento economico, in modo che si possa confutare la tesi, sostenuta all’interno e all’estero dalla propaganda nemica, di una “spoliazione dell’Italia””. 

Per garantirsi la disponibilità di importanti ditte a fornire ulteriormente i prodotti richiesti occorreva innanzi tutto pagare i vecchi debiti, ancora insoluti dai tempi dell’”alleanza italo-tedesca”.

Debiti che costituivano “un rilevante saldo a favore dell’Italia”.

Per appianarlo, secondo il parere del Ministro degli Esteri tedesco, occorreva “diramare” un importo mensile fisso di circa 100 milioni di lire dai versamenti italiani per i “costi di occupazione”, importo che sarebbe stato opportuno “elevare di caso in caso” nei limiti del possibile. 

Avvenne così che furono gli italiani, nel loro complesso, a pagare quei debiti che i committenti tedeschi avevano contratto negli anni precedenti con i singoli fornitori, mentre i marchi con cui le ditte private tedesche credettero di onorare i loro impegni fluirono nelle casse dell’erario germanico.

Gli autori della lettera summenzionata proposero che si applicasse la stessa tecnica anche per mettere le mani sui risparmi che i deportati e i prigionieri di guerra italiani, costretti a prestare lavoro forzato in Germania, avrebbero rimesso alle loro famiglie.

Fin dall’inizio fu previsto che per questo scopo fosse sottratto un “importo mensile di 200-250 milioni di lire” dai contributi per gli “oneri bellici” pagati dall’Italia.

Nel complesso i tedeschi sottrassero all’Italia beni e valori per almeno 10 miliardi di marchi.

Inizialmente, dopo l’8 settembre 1943, il Governo Italiano fu costretto a pagare 7 miliardi di lire al mese di contribuzioni.

Se è vero che nei successivi 18 mesi di guerra gli Alleati liberarono parti sempre più estese della penisola, il ricco settentrione d’Italia rimase però, fin quasi alla fine, sotto il controllo tedesco.

Poiché il paese fu ben presto considerato di nuovo, almeno formalmente, un alleato della Germania […], l’Italia non pagò più i “costi d’occupazione” ma quello che fu eufemisticamente detto un “contributo per le spese belliche”.

Come altrove, i tedeschi fissarono i “costi dell’occupazione” non in base alle effettive spese della Wehrmacht, ma presero come base di riferimento il quadro dei dati che emergeva dall’ultimo bilancio statale.

In Italia il preventivo per l’anno fiscale 1942-43 era stato di circa 81 miliardi di lire.

Comprendeva, fra l’altro, una notevole parte di entrate che l’Italia Fascista avrebbe incamerato dai territori che rimasero occupati dalla truppe italiane fino all’agosto del ’43 e faceva conto, inoltre, su entrate che sarebbero dovute venire da quelle parti del paese che gli Alleati stavano però, passo dopo passo, conquistando.

Ciònonostante i tedeschi considerarono, per così dire, il bilancio pan-italico 1942-43 come base su cui commisurare il livello del contributo da pretendere per le spese belliche.

Nel marzo del 1944 il Funzionario Relatore responsabile delle Finanze presso il Comandante Plenipotenziario germanico in Italia, analizzò in modo più preciso la situazione economica del paese constatando che questo, a fronte di un reddito nazionale lordo di 130 miliardi di lire, doveva pagare ai tedeschi 84 miliardi di lire quale contributo per le spese di guerra.

Rimanevano all’Italia, dunque, solo 46 miliardi per i consumi pubblici e privati. Questo il quadro puramente contabile. Sennonché quello reale era ancor più deprimente:

“Perché occorre considerare — diceva il rapporto — che l’Italia, a parte il contributo per le spese di guerra, si trova a dover pagare anticipatamente ai tedeschi anche gli acquartieramenti e il vettovagliamento, le requisizioni e i danni bellici causati e subiti dalla Wehrmacht e infine, in una certa misura, anche gli impegni di clearing.

A tutto ciò bisogna poi aggiungere gli “oneri di guerra” propri dell’Italia (altri danni bellici da risarcire, pensioni da pagare, ecc.)”.

Come se non bastasse, nulla frenava il continuo aumento di questi “contributi” fissati dall’accordo-diktat del 23 ottobre 1943. Il passaggio decisivo dell’accordo in questione diceva che l’Italia:

“deve mettere a disposizione del Grande Reich germanico un contributo per gli oneri bellici corrispondente alle esigenze economiche delle organizzazioni tedesche”.

Se in Francia, nel 1940, si facevano ancora distinzioni fra “conto A” e “conto B” per contabilizzare separatamente i prelievi estranei ai costi d’occupazione, riguardo l’Italia il Ministero delle Finanze di Berlino fece invece sapere che:

“ciò che la parte tedesca farà dei soldi delle contribuzioni sono fatti suoi” e che “nella misura in cui saranno impiegate lire per acquisti necessari a soddisfare esigenze che sorgeranno fuori dall’Italia”, questa sarà tenuta a pagare “un contributo per le spese esterne di occupazione che sarà espresso nel suo controvalore in marchi”.

Come c’era da aspettarsi, il Ministero per l’Alimentazione del Reich, Göring, la Roges, nonché gli incaricati del Ministero degli Armamenti di Speer, si fecero mettere a disposizione elevati importi in lire per fare acquisti in Italia Settentrionale.

[…]

Una simile politica fece salire bruscamente l’inflazione, diradò la disponibilità dei beni di consumo e diffuse la miseria, tutte cose che — accentuate dai successi militari degli Alleati — provocarono la crescita del Movimento Partigiano e della protesta civile.

Quando, nel giugno del 1944, settantamila operai a Milano e cinquantamila a Torino entrarono in sciopero, l’inviato del Ministero delle Finanze del Reich, dottor Hubert Schmidt, formulò questa proposta: 

“Una soluzione del problema si troverà solo trasferendo nei Campi di Concentramento tedeschi un gran numero di scioperanti”.

Allo stesso Funzionario delle Finanze, pronto a suggerire a cuor leggero simili soluzioni, non venne invece in mente niente di praticabile per ciò che riguardava il suo specifico campo di attività:

“L’indebitamento dello Stato italiano è in continua crescita” — così riassunse la situazione nell’agosto del 1944 — “e le entrate ordinarie del bilancio 1943-44 sono calate del 30% circa rispetto all’anno precedente, coprendo solo il 14% scarso delle uscite”. 

————

Un bel reminding per coloro che, dopo aver dimenticato la tassazione asburgica del Lombardoveneto, hanno dimenticato anche quella tedesca della Repubblica Sociale e, incredibilmente, sono pronti per una terza esperienza. La storia, evidentemente, non ha insegnato molto.

Franco

*****

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