Martin Deuerlein per Geschichte der Gegenwart
In situazioni eccezionali, vengono messi alla prova i contorni stessi dell’ordine sociale.
Questo vale anche per la pandemia, che ha fatto vacillare molte presunte certezze compresa l’ipotesi, stabilita fin dagli anni ‘90, che la globalizzazione sarebbe cresciuta a ritmo costante.
La diffusione del virus ha dimostrato quanto il mondo sia interconnesso. L’impatto sulle catene di approvvigionamento è avvenuto su scala globale rendendole improvvisamente molto vulnerabili.
Ad esempio, per alcuni beni urgenti e vitali come le “mascherine” gli Stati si sono mossi ognuno per conto suo, ignorando le comunità e gli accordi commerciali di cui facevano parte.
Se molti osservatori ritengono che una trasformazione della globalizzazione sia palesemente in atto, altri si sono spinti fino a proclamarne la fine, con il 2020 che si sta trasformando in una “svolta epocale”.
Se negli ultimi decenni nazionalismo e stato-nazione sembravano cedere sempre più il passo alla globalizzazione, ora stiamo andando verso la direzione opposta: i controlli sulle esportazioni dei beni medicali e la chiusura delle frontiere hanno chiarito quanto fortemente gli stati nazionali possano intervenire nella mobilità delle merci e delle persone.
L’approvvigionamento dei vaccini segue il principio della concorrenza nazionale anche all’interno dell’UE: una sorta di “nazionalismo vaccinale”.
I gruppi nazionalisti sono fortemente coinvolti nelle proteste contro le misure governative, mentre i sondaggi mostrano quanto negativamente siano stati giudicati gli effetti della globalizzazione durante la pandemia.
Ma la pandemia sta davvero annunciando la fine della globalizzazione?
Questa domanda è posta in modo sbagliato perché presuppone che la globalizzazione sia un processo coerente, con un inizio e una fine relativamente chiari. Il che non è vero.
Innanzitutto, da un’analisi storica emerge che fasi di crescente e decrescente interdipendenza tra gli Stati possono essere osservate fin dal 19° secolo.
“Globalizzazione”, poi, è un termine del tutto artificiale che riassume fenomeni non sempre coerenti.
Gli anni ’90, ad esempio, posero le basi per un più marcato sviluppo in senso globale, ma senza portare a nulla di davvero concreto e, questo, fu da molti interpretato come un fallimento.
La storia della globalizzazione
Gli storici sottolineano che le relazioni commerciali o i movimenti migratori su lunghe distanze, che ora riassumiamo con il termine “globalizzazione”, possono essere osservati da molto prima di quanto venga ora ipotizzato.
Ad esempio, il commercio attraverso la Via della Seta e l’espansione coloniale dell’Europa a partire dal 16° secolo, sono fenomeni così diversi e avvenuti in regioni così distanti nel mondo da non poter essere definite con esattezza — e nemmeno si può dar loro una precisa data d’inizio.
Ciò che invece è assolutamente chiaro è che queste interconnessioni su scala globale, così come si sono formate, si possono interrompere.
La globalizzazione non è mai stata lineare, ma a ondate
Lo dimostrano gli ultimi due secoli: l’interazione globale intorno alla metà del 19° secolo, conseguenza dell’industrializzazione, ebbe una spinta decisiva (e allo stesso tempo vi si focalizzò) in Europa.
Nel 1848, anche Marx ed Engels osservarono che la borghesia andava a caccia di mercati “in tutto il mondo”.
Nei due decenni precedenti alla 1a Guerra Mondiale, il commercio e i movimenti migratori erano aumentati al punto tale da poter affermare che una prima fase della globalizzazione si fosse messa in moto proprio durante quel periodo.
Con la guerra, poi, numerosi collegamenti s’interruppero e, poco più tardi, con la crisi economica mondiale del 1929 si osservò una fase di “deglobalizzazione”.
Sostenuto attivamente dalle “Istituzioni del Sistema di Bretton Woods” e dal GATT, il commercio mondiale aumentò di nuovo dagli anni ’50 in poi, con gli Stati Uniti che svolsero un ruolo centrale.
L’inizio della 2a fase della globalizzazione cui oggi assistiamo può essere visto negli anni ‘70, quando la fine dei tassi di cambio fissi [gold standard], le innovazioni tecnologiche e la deregolamentazione politica portarono all’emersione di una nuova forma di capitalismo, quella del “mercato finanziario digitale”.
La globalizzazione ha ulteriormente cambiato volto sia con l’integrazione nell’economia mondiale della Repubblica Popolare Cinese e degli Stati post-socialisti, che con l’introduzione di Internet.
L’era della globalizzazione risale al 1990?
Non si può negare, tuttavia, un’accelerazione del processo di globalizzazione avvenuto negli ultimi due decenni.
All’inizio degli anni ’90 (con la fine della Guerra Fredda e con il crollo del socialismo reale) si ebbe la netta impressione dell’inizio di una nuova era in cui lo spostamento di merci, capitali e persone potevano estendersi verso confini sempre più illimitati: “globali”.
Il termine si diffuse rapidamente proprio perché, da un lato, era abbastanza preciso da consentire un dibattito coerente sui cambiamenti del presente, dall’altro abbastanza generale da poter cogliere una varietà di argomenti e sviluppi: dal commercio mondiale alle transazioni finanziarie, dalla migrazione alla cultura.
Tuttavia, la parola “globalizzazione” non rappresentava questi sviluppi in modo neutrale, ma forniva interpretazioni omnicomprensive, alimentando aspettative di uno sviluppo complessivo a livello mondiale.
Nonostante possa essere interpretato in molti modi diversi, il suo significato, per come l’ha modellato l’economista di Harvard Theodore Levitt nel 1983, resta valido ancora oggi: la “globalizzazione dei mercati” rende il mondo un campo illimitato per le società globali.
La conseguenza, secondo una tesi diventata centrale negli anni ’90, sarebbe stato l’inevitabile addio agli “stati-nazione”, ritenuti non in grado di controllare i contesti economici con la stessa efficacia delle organizzazioni sovranazionali.
Gli stati-nazione erano ritenuti inaadeguati anche perché lo stile di vita sempre più cosmopolita di molte persone rendeva il concetto di nazionalismo sempre più residuale.
Secondo il mainstream, la globalizzazione era ormai diventata un processo quasi auto-perpetuante e difficilmente influenzabile, cui ci si poteva solo adattare.
La fine della globalizzazione?
Tuttavia, la pandemia ha reso esplicito che tali previsioni degli anni ‘90 erano quanto meno esagerate, se non proprio sbagliate.
Nonostante fosse accettata come un processo quasi inarrestabile, la crisi finanziaria globale del 2007/08, in particolare, dimostrò chiaramente la vulnerabilità dell’”economia finanziaria globale”.
Da allora, è stato ripetutamente affermato che la globalizzazione aveva perso slancio e che si trovava obiettivamente in crisi.
Allo stesso tempo, il salvataggio delle grandi banche con il denaro dei contribuenti e le misure per stimolare l’economia hanno chiarito che gli Stati avevano ancora notevoli opportunità d’intervento e che, anzi, tali interventi erano fondamentali per la stabilità dell’economia globale.
Anche gli effetti sociali della globalizzazione che, inizialmente, ci si aspettava fossero prevalentemente positivi, furono visti sempre più criticamente.
Se inizialmente le voci più critiche alle conseguenze dell'”ideologia neoliberista” di deregolamentazione e privatizzazione giungevano principalmente da sinistra, successivamente le critiche più accese cominciarono ad arrivare da destra, soprattutto dal 2015/2016.
L’ascesa dei Partiti Populisti, sulla scia della “crisi migratoria” europea, della Brexit e dell’elezione di Donald Trump, sconcertarono molti osservatori, convinti di assistere ad un “ritorno del nazionalismo” che credevano già estinto.
L’aumento dell’interdipendenza globale non ha portato alla scomparsa del nazionalismo, com’era stato previsto, ma ha innescato una vera e propria “rivolta contro la globalizzazione”.
In Europa e in Nord America, secondo i sociologi, questa rivolta è principalmente portata avanti da membri della “vecchia classe media” e da una “nuova sottoclasse” di residenti autoctoni.
Ovvero, da coloro che sono stati particolarmente colpiti dalle conseguenze negative della globalizzazione, spaventati dalla perdita di posti di lavoro e che attribuiscono alla migrazione la causa dei loro problemi.
Non stupisce dunque che queste persone identifichino le “élite globaliste” e le nuove classi medie “urbane e cosmopolite” come veri e propri nemici.
Queste spinte critiche in direzione nazionalista e protezionista in Nord America e in Europa, ma anche in paesi come l’India o la Russia, sono state intercettate dalle politiche di Donald Trump, che inveiva contro l’immigrazione, il libero scambio e l’”ideologia della globalizzazione”.
L’indebolimento delle dinamiche del commercio mondiale, conseguenza della pandemia, ha aggiunto ulteriore vigore.
Pandemia e globalizzazione
La pandemia non ha innescato improvvisi sconvolgimenti nelle aree appena considerate, ma ha intensificato, accelerato e, soprattutto, resi visibili gli sviluppi a lungo termine di queste politiche ed economie.
I ritmi di crescita del commercio mondiale degli anni ’90 sono solo un ricordo da ormai più di un decennio.
Già a seguito della crisi finanziaria era diventato chiaro che gli Stati Nazionali non solo erano ancora influenti, ma che svolgevano anche compiti centrali che nessuno è ancora stato in grado di sostituire.
La tesi della loro fine era a dir poco frettolosa.
Anche il nazionalismo non è mai realmente scomparso anche se, dal 1990 in poi, è stato considerato un modello politico sorpassato.
Il fatto che nella crisi pandemica gruppi e posizioni di destra si associno alle proteste, rifiutino le restrizioni alla libertà individuale o mettano in discussione il reale pericolo del virus, viene presentato da alcuni come una minaccia.
Ma il rinvigorirsi del nazionalismo non sta segnando la fine della globalizzazione.
Perché, contrariamente a quanto spesso si presume, nazione e globalizzazione non sono in contrapposizione e non appartengono a epoche diverse.
Piuttosto, gli stati-nazione sono emersi nel 19° secolo in risposta alla crescente interdipendenza del periodo, mentre la globalizzazione di oggi si basa ancora su condizioni garantite dagli stati-nazione.
Pertanto, se per globalizzazione s’intende l’insieme di una serie di fenomeni su scala globale, non deve bastare il cambiamento di uno solo di questi per decretare la fine nel suo complesso.
E’ meglio affermare che la globalizzazione, in senso lato, sia in continua evoluzione.
E adesso?
Invece di descrivere questa trasformazione con altri termini complessivi, come ad esempio “digitalizzazione della globalizzazione”, la pandemia offre una buona opportunità per metterne in discussione i presupposti.
Ad esempio, si potrebbe riconsiderare l’immagine della globalizzazione come un fenomeno complesso, ovvero non uniforme e lineare.
Storici globalisti come Jürgen Osterhammel propongono addirittura di usare il termine globalizzazione al plurale.
A nostro avviso, sarebbe ancora meglio separare gli aspetti “individuali” da quelli “collettivi” e considerarli separatamente.
Risulterebbe evidente che sono all’opera logiche e interessi molto diversi sui temi della migrazione, del commercio, della finanza o del turismo, ma anche che la globalizzazione non sia un processo “naturale”, ma il risultato di molte decisioni umane.
Una tale visione ci permetterebbe di mettere in discussione l’uso della “globalizzazione” come capro espiatorio per tutti i problemi di questo mondo.
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Link Originale: https://geschichtedergegenwart.ch/ende-der-globalisierung-eine-historische-perspektive/
Scelto e tradotto da Bart