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Home » Perché il mercantilismo tedesco resta un pericolo per la democrazia

Perché il mercantilismo tedesco resta un pericolo per la democrazia

Franco Leaf by Franco Leaf
2 Agosto 2021
in Generale
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Redazione Voci dalla Germania: Il giornalista e scrittore tedesco Herbert Storn ci spiega i pericoli di un modello di crescita come quello tedesco, basato sull’export e sull’avanzo commerciale con l’estero. 

Una riflessione molto interessante sugli effetti della politica del “Germany First” di Herbert Storn, da Makroskop.de

*****

È indiscutibile che il modello fondato sul surplus commerciale con l’estero si basi sull’idea della concorrenza — qualcuno vince a spese di qualcun altro (la classica politica del beggar-my-neighbour).

E qui non sono di nessun aiuto le argomentazioni della teoria economica sul libero scambio come elemento di sviluppo per tutti i “partner” coinvolti — e non serve a nulla ripetere come un mantra la possibilità di un reciproco “win-win”.

Alla base dei valori della Democrazia, tuttavia, ci sono la cooperazione, il consenso e la protezione delle minoranze. Il solo esercizio verbale di questi concetti, purtroppo, non è sufficiente!

Questa fondamentale contraddizione è aggravata dall’aggressività che accompagna la tipica concorrenza capitalista con la lotta sui prezzi, il dumping salariale, le acquisizioni, l’outsourcing, i licenziamenti dei dipendenti e la formazione dei monopoli.

Anche il memorandum ha ripetutamente criticato l’aggressiva politica commerciale portata avanti per molti anni dalla Germania, considerandola responsabile del rafforzamento delle Forze e dei Partiti antidemocratici in Europa e, in Germania, dell’AfD (Memo 2018).

Se l’economia interna continua a trasferire reddito dal lavoro al capitale e lo Stato è incatenato da una controproducente politica di “freno all’indebitamento”, questa situazione contribuirà ad una ulteriore divisione economica e politica.

Queste fondamentali contraddizioni del modello basato sul surplus commerciale mettono continuamente in discussione l’approvazione della popolazione nei confronti di questo tipo di politica.

Le contraddizioni devono quindi essere nascoste, oppure negate, attraverso la tipica ideologia di “autodifesa” come ad esempio:

– Il nostro modello di crescita e il nostro stile di vita saranno sostenibili solo se restiamo i migliori!

– Se vogliamo mantenere il nostro modello di stato sociale, a livello internazionale dobbiamo essere davanti a tutti! 

In questo modo non è possibile sviluppare e comunicare alcuna strategia. 

Le alternative basate sulla solidarietà hanno poche possibilità: a dominare sono la concorrenza e l’ipocrisia.

Nel frattempo, però, i lavoratori di interi settori vivono e guadagnano al di sotto del livello che sarebbe loro possibile se il modello fondato sul surplus delle esportazioni venisse messo in discussione e sostituito da una strategia equilibrata, maggiormente orientata alla domanda interna, in linea con la legge della stabilità.

Ma se la competitività aziendale diventa la misura principale dell’efficacia politica, allora diventa chiaro quali dovrebbero essere le priorità dei Governi Federali e Statali.

Ed è qui che bisognerebbe utilizzare il ritorno sul capitale come metro di giudizio.

Il rendimento medio sul patrimonio netto delle aziende tedesche nel periodo dal 2005 al 2016, infatti, è stato del 23,2% prima delle tasse, e del 18,2% dopo le tasse.

In un tale quadro, i rendimenti del 25 % richiesti in maniera vigorosa, nel 2009, dall’allora capo della Deutsche Bank, Josef Ackermann, potevano essere addirittura comprensibili.

Ma tali rendimenti possono essere raggiunti solo con una politica aziendale corrispondentemente aggressiva a spese della collettività, il che in Democrazia può portare rapidamente a dei disordini.

Il danno collaterale della politica Germany First è che, per essere attuata, richiede somme di denaro sostanziali che mancheranno altrove.

Tutto ciò si riflette in infrastrutture trascurate, in tagli massicci dei “dipendenti dello stato”, in un sistema scolastico trascurato (evidente nella crisi causata dal Coronavirus, non ultimo nelle attrezzature informatiche), in ospedali dove mancano 100.000 infermieri e in una politica fiscale e sociale che coccola le aziende e discrimina i beneficiari della Hartz IV, solo per evidenziare alcuni punti salienti.

In Germania, l’antica fissazione sugli avanzi commerciali è aggravata da una seconda fissazione ideologica, vale a dire l’opinione che il settore privato possa “fare meglio” dello Stato, spingendo il Governo a sostenere la massima “il Privato prima dello Stato”. (…)

Nel 2011, nella Costituzione dell’Assia è stato addirittura aggiunto un ulteriore “divieto di indebitamento”, vale a dire una ulteriore leva per lo snellimento automatico dello Stato tramite lo strangolamento dei margini di bilancio.

E’ del fondatore della Fondazione Bertelsmann, Reinhard Mohn, la famosa frase secondo cui “sarebbe una benedizione se lo Stato finisse i soldi”.

Cosi’ Arvato, la controllata di Bertelsmann, potrà prendere il suo posto e persino arrivare a guadagnare dei soldi esercitando alcune funzioni dello Stato!

Ma quanto più si privatizza, tanto meno saranno gli argomenti su cui è possibile decidere democraticamente!

I principali sostenitori di questa strategia sono la CDU e la FDP. 

Ma anche i Verdi, sin dalla loro fondazione nel 1980 hanno abbandonato sempre di più le loro rivendicazioni sociali — uno dei loro quattro obiettivi originali: ecologia, sociale, democrazia di base e non violenza — in favore di uno scetticismo di fondo nei confronti dello Stato.

Non è una coincidenza che la CDU e i Verdi nel Baden-Württemberg e nell’Assia stiano così bene insieme.

Con lo SPD, lo Stato avrebbe avuto un maggior peso programmatico, che sarebbe stato impiegato per rafforzare l’economia tedesca.

La Germania in questo modo ha un consenso quadripartititico che individua la sua missione nel rafforzamento della competitività delle imprese tedesche sui mercati mondiali.

Gli elettori possono solo scegliere fra accettare questo modello oppure essere ignorati. A fare in modo che ciò accada, ci penseranno i media.

Ma a rendere difficile l’influenza dell’elettorato sulla politica c’è anche qualcos’altro.

Se lo Stato e le grandi aziende sono unite dall’obiettivo condiviso della competitività globale, allora non ci sarà davvero bisogno del classico lobbismo.

Il veicolo comune per arrivare a questo è noto come “effetto delle porte girevoli”, vale a dire il passaggio di personale da “funzioni statali di primo piano” al “lobbismo per le aziende” — e viceversa.

Gli esempi sono leggendari.

Il più recente può essere quello di Mario Draghi, passato dalla Banca Mondiale al Ministero delle Finanze Italiano, poi a Goldmann Sachs, poi alla Banca Centrale Italiana e quindi alla BCE, e ora alla carica di Primo Ministro Italiano.

Poiché l’effetto delle porte girevoli non è sufficiente per servire nel dettaglio i multiformi interessi delle aziende, i politici eletti hanno bisogno anche di Consiglieri.

Ma coloro che potrebbero fornire una visione diversa e scelte alternative per il bene comune, si trovano di fronte un esercito di specialisti molto preparati.

Per il ruolo di Consulenti, la maggior parte delle persone tende a immaginarsi degli individui o dei piccoli uffici.

In realtà, si tratta di grandi multinazionali che massimizzano il profitto e sono anche specializzate in vari campi di attività: le Agenzie di Rating, gli Studi di Contabilità, gli Studi Legali e i Consulenti di Gestione.

Nel complesso, il numero di dipendenti raggiunge probabilmente i due milioni. 

Il nuovo Segretario Generale della CDU, Paul Ziemiak, ha lavorato in passato per la Società di Revisione Pricewaterhouse Coopers.

Il Senatore alle Finanze di Berlino, Matthias Kollatz della SPD, in precedenza ne era stato un Consulente Senior.

L’Amministratore Delegato Stefanie Frensch dell’”Azienda Statale Berlinese per la Costruzione degli Alloggi” è arrivata da Ernst & Young Real Estate GmbH per poi passare a una Società Immobiliare privata.

Il suo successore, Ulrich Schiller, proviene anch’egli da una società di edilizia privata, la Vonovia.

Questi sono solo alcuni degli esempi che dimostrano quanto sia naturale cambiare carriera passando da aziende orientate al profitto ad aziende pubbliche, che invece dovrebbero essere maggiormente impegnate nel perseguimento del bene comune. 

Werner Rügemer ha aggiornato un’altra volta il ruolo di cerniera tra le strategie aziendali e la politica nel suo libro “I capitalisti del XXI secolo”.

Egli definisce il coordinamento degli interessi dei capitalisti con quelli della politica “l’esercito privato del capitale transatlantico”:

“Il loro staff è composto da professionisti laureati e ben retribuiti, provenienti dalle più prestigiose Università private e pubbliche e dalle business  school, addestrati ad avere un’immagine elitaria di sé. Sono gli attori di uno Stato che nelle principali Democrazie Occidentali capitaliste è ormai ampiamente privatizzato”.

E anche la Corte dei Conti Federale afferma che il permanente ricorso da parte dello Stato a delle società di consulenza esterna, aumenta il rischio legato al controllo delle attività e porta ad una perdita della capacità di controllare la società da parte della politica.

Non è la politica a sostenere le aziende, ma sono le aziende stesse che fanno politica e spesso presentano ai politici il fatto compiuto.

Rudolf Hickel di “Alternative Wirtschaftspolitik“ ha descritto i rappresentanti eletti dal popolo come dei “nani del sistema capitalista”.

Harald Schumann, nel 2016, parlò di capitolazione della classe politica.

Aveva capito che sono proprio i ricchi e i loro fiduciari a guidare le grandi aziende in grado d’influenzare l’opinione pubblica in modo molto significativo.

Perché non solo hanno gli investimenti, ma anche i mezzi per creare il giusto clima sociale.

Del resto la questione è stata sottolineata anche dal cabaret politico: “La democrazia arriva dal popolo. Ma per andare dove?”.

*****

Link: http://vocidallagermania.blogspot.com/2021/03/perche-lesportismo-resta-un-pericolo.html

Scelto e pubblicato da Franco

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