“Straordinario, vero? Ho sentito qualcosa sul COP 26” — disse la Regina alla Duchessa di Cornovaglia — “Non so chi parteciperà … So soltanto chi è che non verrà … È davvero irritante. Parlano, parlano … ma poi non fanno niente”.
La Regina Elisabetta II stava esprimendo la sua esasperazione per il numero delle assenze al prossimo “summit sul clima” che si terrà a Glasgow, in Scozia.
Fra gli assenti potrebbe esserci anche il Presidente cinese Xi Jinping, il cui Paese genera più anidride carbonica degli Stati Uniti e dell’UE messi insieme.
Dietro all’esasperazione della Regina, tuttavia, si nasconde una realtà politica.
Paesi come la Cina stanno scoprendo che soddisfare gli obiettivi del “taglio delle emissioni di carbonio” può bloccare la crescita economica, mettendo il regime stesso in forte pericolo.
Costretti a scegliere fra ciò che è meglio per il Paese, ora, e ciò che è meglio per l’umanità in un futuro indeterminato, i leader mondiali stanno mettendo i bisogni attuali delle loro nazioni ben al di sopra dei bisogni del mondo di domani.
Mentre il conto alla rovescia per il COP 26 continua ad andare avanti, la situazione energetica della Cina è ben descritta dal New York Times:
“La carenza di elettricità, in Cina, si sta diffondendo nelle fabbriche e nelle industrie, mettendo alla prova lo status della nazione come affidabile capitale mondiale della produzione di beni.
Tale carenza ha spinto le Autorità ad annunciare una campagna nazionale per estrarre e bruciare una maggior quantità di carbone, nonostante i loro precedenti impegni per frenare le emissioni che causano il cambiamento climatico.
Le miniere di carbone che erano state chiuse devono essere riaperte. Anche le miniere e le centrali elettriche a carbone, chiuse perché obsolete o in manutenzione, devono essere riaperte.
Si stanno elaborando incentivi fiscali … I governi locali sono stati avvertiti di essere più cauti sui limiti all’uso dell’energia, imposti (in parte) come risposta alle preoccupazioni sul cambiamento climatico”.
All’inizio di quest’anno, Pechino aveva promesso di smettere di costruire centrali a carbone fuori dalla Cina.
Ma, in patria, Pechino sta facendo di tutto per estrarre e bruciare carbone, dovendo mantenere in attività il più grande apparato manifatturiero e la più grande forza lavoro del mondo.
Costretto a scegliere fra la lotta al cambiamento climatico e la prevenzione di una possibile depressione, Xi sta mettendo la Cina al primo posto.
La Cina non è l’unica potenza economica asiatica alle prese con una carenza di energia.
Anche l’India, il terzo produttore mondiale di CO2 dopo la Cina e gli Stati Uniti, sta affrontando una potenziale crisi energetica.
Il carbone rappresenta il 70% della produzione elettrica dell’India. Eppure, 4 su 5 delle sue 135 centrali a carbone hanno gli stock a livelli criticamente bassi.
Con la ripresa della sua economia, Nuova Delhi sarà sul mercato per comprarne di più. Le lezioni sulle emissioni di carbonio resteranno probabilmente inascoltate.
In Europa, dal 2019, i prezzi all’ingrosso dell’elettricità sono aumentati del 200% a causa dell’aumento dei costi del gas naturale, dovuto alla forte domanda in Asia e alle consegne inferiori al previsto da parte della Russia.
La maggior parte dei Paesi dell’UE si affida alle centrali a gas per soddisfare la domanda di elettricità. Circa il 40% di quel gas proviene dalla Russia.
Con il completamento del gasdotto Nord Stream II, la dipendenza della Germania e dell’UE dal gas russo è destinata ad aumentare.
La Russia, ricca di combustibili fossili ancora molto richiesti (e quarto produttore mondiale di CO2), è possibile che accetti di vedere i suoi clienti allontanarsi dal carbone, dal petrolio e dal gas russo senza colpo ferire, per adottare il solare e l’eolico?
L’altra settimana, i prezzi del petrolio statunitense hanno raggiunto il massimo da sette anni, a fronte dell’impennata della domanda globale e a una stretta dell’offerta indotta dall’OPEC.
Il greggio West Texas Intermediate, il punto di riferimento del petrolio statunitense, è salito a 82 dollari al barile. I prezzi del gas si sono accodati.
Il petrolio ha toccato il prezzo più alto da quando l’OPEC lanciò la guerra dei prezzi contro i produttori di “petrolio di scisto” degli Stati Uniti.
Nel novembre del 2014 l’OPEC stupì i mercati mondiali rifiutando di frenare la produzione di petrolio, a fronte dell’impennata della produzione derivata dagli scisti.
I prezzi del greggio andarono in caduta libera perché l’OPEC cercava di spingere i produttori statunitensi, dai costi più alti, fuori dal mercato.
Tale nazionalismo economico solleva una domanda rilevante:
Perché le nazioni dell’OPEC, che dipendono dalle esportazioni di petrolio per gran parte del loro reddito nazionale, dovrebbero sostenere l’abbandono mondiale dei combustibili fossili, da cui dipende la sopravvivenza dei loro regimi?
In breve, la domanda mondiale di carbone, petrolio e gas naturale sta aumentando, così come i prezzi, proprio mentre la Conferenza sul Clima, il cui obiettivo è quello di ridurre ed eliminare la loro combustione, sta per riunirsi a Glasgow.
Nazioni come Cina, India e Russia saranno disposte a rinunciare al carbone, al petrolio e al gas — da cui dipende l’80% delle centrali elettriche del mondo — per sostituirli con mulini a vento e pannelli solari?
Su insistenza del Senatore Joe Manchin, il “cuore” dell’agenda climatica del Presidente Joe Biden — un programma per sostituire le centrali elettriche a carbone e a gas degli Stati Uniti con l’energia eolica e solare, aumentando costantemente le tasse sulle prime e le sovvenzioni per le seconde — sarà apparentemente eliminato dalla legge di bilancio da 3.500 miliardi di dollari.
Previsione: a lungo termine, i nazionalisti che lottano per soddisfare i bisogni a breve termine dei loro elettori e dei loro Paesi prevarranno, probabilmente, sui globalisti che professano di voler servire tutta l’umanità.
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La nostra opinione
Il grafico di cui sopra ci dice chi sono i Paesi che più emettono anidride carbonica.
Ora, se i primi quattro Paesi al mondo non vogliono saperne, gioco forza, di abbandonare i combustibili fossili … se anche Giappone e Germania, al di là delle parole, non sono tanto convinti (i tedeschi stanno riaprendo le miniere di lignite!), di che cosa stiamo parlando?
La lotta ai “cambiamenti climatici” (dimenticando che la storia del “pianeta Terra” è fatta di cambiamenti climatici) sembrerebbe giunta a un vicolo cieco.
Almeno sul breve-medio termine, seppur senza particolari conseguenze sul clima.
Alcuni scienziati, in effetti, non sono d’accordissimo sul fatto che il pianeta si stia davvero scaldando (al di là delle normali oscillazioni) e nemmeno, se del caso, che la ragione sia antropogenica.
Ieri abbiamo pubblicato un articolo di Tom Luongo, in cui l’analista ci ricordava che la lotta al ”Climate Change” sia una parte fondante dell’agenda globalista del WEF, ovviamente a secondi fini
Ora, il palese rigetto di questa teoria non potrebbe essere un sintomo ulteriore, dando credito a Tom Luongo, della progressiva sconfitta di Davos e del Grande Reset, per mano delle quattro (e non solo) potenze più grandi del mondo?
Ai posteri, come suol dirsi …
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Scelto e tradotto da Franco