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Home » «George Floyd non è il mio martire». La realtà dietro la rivolta negli Stati Uniti

«George Floyd non è il mio martire». La realtà dietro la rivolta negli Stati Uniti

Franco Leaf by Franco Leaf
5 Agosto 2021
in Generale
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Redazione di Renovatio 21 (sintesi)

Candace Amber Owens Farmer, classe 1989, è un’attivista politica molto nota negli Stati Uniti.

I suoi attacchi ai Democratici e alla loro narrativa razziale sono ormai parte integrante del discorso pubblico.

La Owens racconta una storia completamente diversa dei problemi della “comunità nera americana” rispetto a quella che sentiamo tutti i giorni.

Invece che auto-vittimizzarsi (come i democratici e progressisti aiutano a fare), i neri dovrebbero responsabilizzarsi.

Non si tratta della disuguaglianza economica, il vero danno è costituito da qualcosa di molto più profondo (e tremendo): la “fatherlessness”, ovvero l’”assenza del padre” nelle famiglie afroamericane.

Un tema importantissimo anche per il resto del mondo, su cui “Renovatio 21” tornerà presto — e spesso.

Dopo qualche iniziale tentennamento, la Owens dice la sua sul caso di George Floyd e sulle rivolte che sono seguite negli Stati Uniti.

Il suo video ha fatto il giro del web [ https://youtu.be/jZ9IcSY6lnU ].

Sono seguiti insulti, minacce di morte e di stupro da parte di utenti “progressisti”, che hanno a cuore la vita di tutti i neri, tranne quella della Owens.

A seguire i punti salienti del discorso.

La Owens pone a proprio riferimento alcuni autori afroamericani: «Shelby Steele ha affermato che la comunità nera sia l’unica che si rivolge al denominatore inferiore della società. Siamo gli unici che combattono, gridano, chiedono sostegno e giustizia per le persone malvagie della nostra comunità».

Il problema, quindi, è che la cultura dei neri americani tende a prendere come modello dei delinquenti: «Qualunque esso sia, il motivo per cui negli ultimi 5 o 6 anni sia diventato di moda trasformare dei criminali in eroi è spregevole».

Più che figure come Condoleeza Rice, i neri esaltano i Rappers che cantano la “bellezza del crimine”, arrivando finanche a commetterlo, prima, durante e dopo la loro carriera musicale.

«Celebriamo i nostri spacciatori», ricorda la Owens.

Le canzoni hip-hop raccontano spesso storie di spaccio, di magnaccia, di donne picchiate, di omicidi fra gang — senza dimenticare (eterogenesi dei fini del politicamente corretto!) l’omofobia.

I rapper possono finire in galera, ma anche incontrare il Presidente, come nel caso della relazione pubblica tra Jay-Z e Barack Obama.

Le stesse circostanze dell’arresto sono state quasi taciute e, sulla stampa e sui social, è circolata solo l’immagine del poliziotto con il ginocchio sul collo di Floyd, che ora viene santificato: «George Floyd non era una brava persona, ma è stato innalzato ad essere umano straordinario. Al momento del suo arresto era strafatto di Fentanil e di metanfetamina. Era drogato fino al punto di essere uscito di testa. Aveva un sacchetto bianco che sembrava contenesse cocaina».

Il Fentanil è una droga potentissima, un oppiaceo che contribuisce massicciamente all’epidemia di morti da overdose che sta decimando la popolazione americana — soprattutto quella bianca.

Tuttavia, più delle storie di droga, è il racconto impietoso di un altro crimine di Floyd, censurato dai media mainstream, che fa accapponare la pelle: «nel 2005, cinque persone fecero irruzione dentro la casa di una donna nera incinta. George Floyd tirò fuori una pistola e la premette sulla pancia della donna gravida».

Chi punta un’arma direttamente contro un bambino non-nato (un bambino nero!) è un criminale senza scrupoli, senza coscienza e senza umanità ma: «stiamo fingendo che questo criminale sia un cittadino-modello dell’America, un martire».

La propaganda irrazionale dei media, che arriva a giustificare violenze e razzie, non ha lo scopo di discutere dei numeri, quelli veri, perché: «si vedrebbe che un criminale bianco ha la stessa probabilità di morire per mano di un Ufficiale di Polizia di un criminale nero».

C’è da ricordare, soprattutto, che «ca. il 13% della popolazione, quella afroamericana, è responsabile del 44% di tutti gli omicidi di questo Paese».

Riguardo alla violenza della polizia: «credo che non ci sia nessuno al mondo che non abbia incontrato un poliziotto e pensato: “questo è un idiota assoluto, in pieno delirio di potere”, che tu sia bianco o nero. Sappiamo che esistono e che esisteranno sempre perché sono anch’essi esseri umani e talvolta gli esseri umani fanno schifo».

Certo, tutti meritano una seconda chance. Ma c’è un limite e, soprattutto, andare in galera non può fare di un uomo un eroe: «Io non seguirò questa torbida narrativa che vuole rendere dei martiri, degli eroi della comunità, persone condannate a 5-6-7 periodi di detenzione».

Ma c’è spazio anche per un piccolo pezzo d’Italia: «Io terrò sul comodino una foto di Kobe Bryant, il mio idolo, mentre voi una di George Floyd, il vostro idolo, fingendo che fosse un essere umano straordinario che, in fondo, ha puntato una pistola sulla pancia di una donna incinta solo una o due volte».

Rivendichiamo Kobe Bryant come un piccolo pezzo d’Italia e come esempio di cittadino vero.

E ancora: «È facile fare la vittima e chiedere ai bianchi d’inginocchiarsi e chiedere scusa. È una schifezza, è una bugia, è una farsa».

Ma in realtà si sta censurando la violenza, quella vera, che ha luogo nell’America nera. Il continuo massacro inter-razziale:  «Il problema più grande siamo noi stessi, è per questo che non ne parliamo quando c’è un crimine fra afroamericani. Non parliamo di Baltimora, non parliamo del New Jersey, non parliamo di nessuno di quei luoghi dove persone di colore vengono massacrate da persone della stessa razza, perché questo significherebbe che saremmo personalmente responsabili [ … ] Non ci piace prendere alcuna responsabilità personale, ci limitiamo a dare la colpa ai bianchi».

La cultura tossica imposta dal “mondo progressista” ai neri — pensata, forse, per tenerli chiusi nei ghetti — non potrà durare per sempre: «Avanzeremo. Questo è quello che succederà. I neri conservatori avanzeranno perché non ci sottometteremo a questa narrativa».

E ancora: «Non mi troverete là fuori a rubare una TV fingendo che un ‘martire’ di nome George Floyd sia stato ucciso».

Molti neri americani la pensano come lei. Anche molti bianchi.

Forse è solo ai Democratici che interessa la “questione della razza”, perché vogliono manipolare l’opinione pubblica — specie in un anno di elezioni presidenziali.

————

Link Originale: http://www.renovatio21.com/george-floyd-non-e-il-mio-martire-la-realta-dietro-alle-rivolte-in-usa/

Scelto e pubblicato da Franco

*****

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