Redazione: Un nostro lettore, che ringraziamo, ci ha inviato la traduzione di quest’articolo, che pubblichiamo volentieri.
Grosso modo, l’articolo presenta due analisi. Una, socio-politica, che per qualche verso apprezziamo.
L’altra, di tipo geostrategico, che invece non condividiamo. L’autore (ed il sito) è anti-trumpiano e antiamericano a prescindere. La sua analisi, quindi, ne risente in modo evidente.
In particolare, la situazione verso l’Iran è assai diversa da come l’autore l’ha presentata.
La politica del bastone (le sanzioni) e della carota (la non-reazione alle provocazioni militari) ha avuto successo (e potrebbe anche evitare la guerra), tant’è vero che gli Ayatollah stanno solo cercando di “mollare” senza perdere troppo la faccia, com’è stato detto in quest’articolo un paio di settimane fa: https://www.mittdolcino.com/2019/07/30/teheran-sta-cercando-di-affogare-il-pesce/
Sulla posizione favorevole alla Turchia, poi, insisteremmo nel dire che, nelle dispute in atto, hanno ragione i Greci, i Ciprioti e i Curdi. Come si può pretendere di dare lezioni morali, ci riferiamo all’autore, se poi si scivola in questo modo su importanti questioni di principio?
Ma tant’è. Noi siamo filoamericani, un po’ per convinzione ed un po’ per mancanza di ragionevoli alternative. Ma pubblichiamo anche articoli contrari, purché interessanti. E quest’articolo lo è.
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Alastair Crooke per Strategic Culture
Conflitti su conflitti stanno sorgendo dappertutto.
L’esercito turco è pronto ad invadere parte della Siria (anche se, per il momento, l’invasione è stata evitata).
Il Primo Ministro indiano, Modi, ha organizzato un putsch nazionalista indù per eliminare l’autonomia dello Stato dello “Jammu & Kashmir”, a prevalenza musulmana, rischiando un conflitto nucleare con il Pakistan.
Il Giappone ha cominciato una mini-guerra commerciale con la Corea del Sud.
La Turchia, ancora, sta preparandosi ad un duro confronto con la Grecia e con Cipro per la ricerca d’idrocarburi nel Mediterraneo orientale.
La guerra nello Yemen si sta intensificando man mano che si avvicina ai confini meridionali dell’Arabia Saudita.
I conflitti degli Stati Uniti con l’Iran e la Siria si stanno attenuando ma Hong Kong, al contrario, sta affondando nella violenza.
Cosa sta succedendo? Esiste un unico legame fra tutti questi eventi? Ogni conflitto, naturalmente, ha specifiche ragioni di fondo ….. ma perché così tanti e tutti allo stesso tempo?
In breve, sono tutti legati al cambiamento in atto. Siamo sulla cuspide di una grande mutazione ed il mondo sta cominciando a posizionarsi per poterla affrontare.
Prendiamo ad esempio la svolta degli Emirati Arabi Uniti che, finora, erano stati sostenitori di uno scontro armato con l’Iran. Ora stanno riavvicinandosi a quel paese.
Gran parte della conflittualità con l’Iran fu conseguenza dell’iniziativa “normalizzatrice” di Obama, che firmò il Trattato JCPOA.
Gli Stati del Golfo temevano di perdere l’”ombrello americano”, sia nei riguardi dei riformisti interni che dell’Iran.
Con l’arrivo del Presidente Trump, ostile al paese sciita, sembrò loro che si potesse di nuovo godere della “garanzia americana” – esortando di conseguenza il Presidente ad agire con decisione.
Ma all’improvviso la speranza che questi paesi riponevano su Trump, perché rallentasse la rinascita dell’Iran bombardando le sue infrastrutture ed infliggendo danni generazionali, è svanita nel calore del deserto.
Quando l’Iran ha preso le sue contro-misure, gli Stati Uniti non hanno reagito.
E non è ancora finita: l’Iran continua ad essere fonte di gravi tensioni regionali ma è ormai chiaro che gli Stati Uniti non hanno né la volontà politica né la capacità militare (di lungo termine) per intervenire – resta comunque la possibilità di un attacco rapido e limitato, al quale l’Iran reagirebbe con tutte le sue forze.
La sensazione del ribaltamento in itinere è stata rafforzata da Trump che, il mese scorso, ha reiterato la volontà di ritirarsi della Siria, ribadendo al contempo di voler lasciare anche l’Afghanistan.
La conclusione è molto facile da trarre: l’America sta lasciando il Medio Oriente.
Gli stati del Golfo, di conseguenza, devono riposizionarsi e lo stanno facendo all’interno del quadro generale costruito dalla Cina e dalla Russia.
Dieci giorni fa, con un documento approvato dalle Nazioni Unite (ma anche dall’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai), il Ministro degli Esteri russo ha proposto un nuova soluzione-quadro per la sicurezza collettiva del Golfo Persico.
Se aggiungiamo che la Cina sta pensando di proteggere direttamente le sue navi nel Golfo (analogamente agli americani e ai britannici) e che la Russia e l’Iran hanno concordato esercitazioni navali congiunte a Hormuz (la Russia avrà accesso alle installazioni navali di Bandar-e-Bushehr e di Chabahar), comprendiamo immediatamente che l’architettura della “sicurezza russo-cinese” sta prendendo forma.
È logico, quindi, che gli Stati del Golfo cerchino un nuovo protettore. E lo hanno trovato.
Quali altre considerazioni si possono fare sullo sviluppo di questi conflitti?
Una riguarda l’evoluzione della tecnica Trumpiana della “massima pressione”: palese, fino ad oggi, la mancanza di grandi successi.
La “massima pressione” americana non si è tradotta in una significativa azione diplomatica, politica e strategica, rendendo ancor più evidente l’impotenza del Presidente.
Alla fine del discorso, questa strategia si è rivelata per essere una mera radicalizzazione dell’eccezionalismo americano.
John Bolton, in effetti, ha così dichiarato: “La più grande speranza di libertà per l’umanità intera sono gli Stati Uniti”.
La protezione dell’interesse nazionale degli Stati Uniti, quindi, è a suo parere la migliore strategia per il mondo intero.
La conseguenza di quest’approccio è che oggi né la Cina, né l’Iran, né la Turchia stanno cercando attivamente un accordo con gli Stati Uniti d’America.
Tutto questo è particolarmente rilevante nel caso della Turchia. Come membro-chiave della NATO, il paese veniva considerato dalla parte degli Stati Uniti, ma la reciprocità del rapporto si fortemente è indebolita.
La Turchia sembrava soddisfatta della sua adesione alla NATO, con gli Stati Uniti obbligati a rispettare determinati impegni. L’appartenenza alla NATO sarebbe dovuta essere, per la Turchia, una soddisfazione in sé.
Ma, di fronte alla rabbia del paese, dopo il colpo di stato del 2016 e l’appoggio dello US CENTCOM all’autonomia curda, la NATO ha risposto rafforzando la sua posizione all’interno della Grecia (nemico giurato della Turchia) che, da parte sua, si è precipitata a cogliere l’occasione.
Pertanto, il risoluto perseguimento degli interessi statunitensi in Siria ha portato all’attivazione di una nuova concorrenza fra Turchia e Grecia nel Mediterraneo orientale, che minaccia lo stato di Nicosia, dominato dalla Grecia.
Non sorprende che la Turchia stia riscoprendo il suo precedente ruolo di potenza eurasiatica, con la Cina e la Russia che la tengono in debita considerazione. Come altri paesi, sembra che stia abbracciando l’architettura russo-cinese.
Ma la politica commerciale e l’approccio geopolitico americano, la sua paura delle guerre, non possono spiegare da sole l’attuale ondata di disordini.
Il perseguimento degli interessi americani, fino alla tolleranza zero nei riguardi degli altri, solleva comunque una domanda: perché non esiste un “piano B”, se Cina, Iran, Russia e Corea del Nord rifiutassero di arrendersi?
Dipende dal fatto che la strada verso un “accordo” non abbia mai veramente interessato Washington?
Che l’obiettivo, in altre parole, fosse fin dall’inizio quello di utilizzare i dazi doganali per spezzare le linee di approvvigionamento asiatiche e costringere quei paesi a ristrutturarsi secondo i dettami degli Stati Uniti ?
O forse perché un nuovo “accordo nucleare” con l’Iran non ha mai veramente interessato i principali centri di potere di Washington DC (che continuano a preferire la solita strategia del “cambio di regime”)?
Un altro e più ampio fattore, per spiegare il senso di un mondo che cambia, è proprio l’implosione culturale dell’Occidente, ovvero il ‘Great Switch’, per dirla con il fondatore del Rousseau Institute.
Fino a poco tempo fa la visione liberale, culturale ed economica dell’Occidente era al suo apice. Sembrava un fatto scontato, inevitabile, il centro di gravità del mondo.
Ma, come ha recentemente sottolineato il Presidente Putin, il liberalismo e il cosiddetto “illuminismo europeo” sono improvvisamente diventati “obsoleti” per gran parte del mondo.
Questa svolta improvvisa ha lasciato i liberali completamente impotenti, furiosi e ansiosi. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove la polarizzazione è estrema, le persone al potere trascorrono il tempo divorandosi a vicenda.
La “guerra civile” che lacera l’Occidente consente ad altri Stati (non occidentali) di esplorare nuovi spazi per trovare la propria strada.
A volte questo percorso può essere potenzialmente distruttivo – come nelle vicende dello Jammu & Kashmir.
Ma la realtà è che non è più necessario obbedire ai moralisti occidentali, ora che sono violentemente sfidati all’interno delle loro stesse cittadelle liberali.
In breve, se l’Occidente sta combattendo per quei valori che sono fortemente contestati finanche a casa loro, come potrebbero, questi principi, essere la base per un ordine mondiale guidato dall’Occidente?
Siamo davvero ad un punto di flessione. Alcuni occidentali potrebbero pensare che lo status quo precedente sia in qualche modo recuperabile (se Trump scomparisse e i “populisti” fossero contenuti).
Ma è un’illusione. Il mondo sta cambiando. Cina, Russia e Asia sostituiranno l’egemonia americana, ma non con un’altra egemonia, bensì con una coalizione flessibile di Stati che sposano valori e modelli civili diversi.
Lo status quo precedente non sarà ristabilito nemmeno in Occidente. Anche il sistema politico occidentale basato sui Partiti è preda di una trasformazione irreversibile.
I politici occidentali di ogni ceto sociale stanno cercando di adattarsi ad una vita pubblica in cui il vecchio mondo è ancora presente, mentre quello nuovo è ancora agli inizi.
Nelle Democrazie Occidentali il sistema politico dei Partiti — nato nel dopoguerra e basato su legami familistici e comunitari, caratterizzato da un centro-sinistra e un centro-destra, ma con ben poca differenza fra i due — sta scomparendo perché le sue proposte non sono più rilevanti per la maggioranza dell’elettorato.
Qual è l’interesse delle parti politiche esistenti a rappresentare i sindacati e il proletariato industriale, quando siamo alla fine dell’occupazione di massa nell’industria pesante?
Le economie post-industriali sono un fenomeno globale. Janet Daley ha scritto che:
“L’odierna coscienza popolare non è sollecitata dal destino dei lavoratori sfruttati dai proprietari delle fabbriche. È più preoccupata per la prospettiva delle chiusure degli impianti, se ce ne sono ancora.
I vecchi litigi della sinistra sulle condizioni di lavoro e sui salari sono in gran parte finiti. Il nuovo problema è molto più sottile e meno favorevole alle soluzioni socialiste: come mantenere un settore industriale in grado di offrire (molti) posti di lavoro a persone dotate di poche competenze?
Se il responsabile del problema è la globalizzazione, il declino dell’economia manifatturiera ne è senz’altro il cuore”.
Eccoci quindi al centro del dilemma occidentale.
Le forze moderate del centro-sinistra e del centro-destra sperano ancora di rappresentare le persone che hanno votato per loro. Ovvero quegli elettori della classe media che vogliono sfoggiare la loro coscienza politica votando per un Partito che sposa una certa nozione di “preoccupazione sociale”.
Ma, analogamente a quella delle élites, la coscienza delle grandi masse urbane si è rivolta a più specifici gruppi di “svantaggiati” – le minoranze etniche, le donne e gli anticonformisti del “genere” – ed è improbabile che prenda in considerazione, o finanche solo comprenda, l’impatto quotidiano dell’immigrazione di massa e del multiculturalismo sulla maggioranza della popolazione.
La polarizzazione aumenta ed ogni gruppo si ritira nella sua enclave. Di conseguenza i Partiti centristi stanno svanendo, sulla scia di una classe media in declino e delle palesi difficoltà economiche.
In questa fase, tre importanti forze politiche si stanno rafforzando. Il riscaldamento globale (per gli ex centristi) e l’immigrazione (per il 60% della popolazione) sono diventate le nuove questioni-chiave.
I partiti nazionalisti di destra, un tempo marginali, sono ora un elemento strutturale del paesaggio politico europeo. Il Centro è nei guai dappertutto. Ed allora “terza forza” è diventata il Movimento dei Verdi.
La sua spettacolare ascesa, con gli elettori ad esercitare pressioni sui loro leader perché agiscano contro i cambiamenti climatici, è attribuibile soprattutto alla mobilitazione dei giovani.
È questo il “punto cieco” di un’élite che si ostina ad ignorare gli effetti negativi della globalizzazione sul 60% della popolazione, per favorire il perseguimento delle loro effimere preoccupazioni ideologiche, che sono diventate insostenibili per ciò che resta della vecchia classe operaia.
Daley suggerisce che questo punto cieco “sia probabilmente costato la presidenza a Hillary Clinton”.
Le donne negli stati industriali in declino non erano preoccupate per i “soffitti di vetro” [probabile il riferimento ai pannelli solari], ma si preoccupavano che ci fosse ogni giorno del cibo da mettere in tavola – e che i loro mariti trovassero in fretta un nuovo lavoro.
Cos’è successo, quindi? Hanno votato come tutte le persone arrabbiate e private dei loro diritti. Hanno votato per un demagogo che non le guardava con disprezzo e a cui hanno potuto esprimere la loro frustrazione.
In conclusione, lo status quo precedente non è più possibile in Occidente – nemmeno a livello nazionale – e tanto meno negli altri paesi. Il “Grande Cambiamento” è in corso.
La società ha perso il suo centro di gravità culturale e il vecchio stile di vita sta chiaramente svanendo.
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Link Originale: https://www.strategic-culture.org/news/2019/08/14/great-switch-old-ways-fade-and-irrecoverable/
Scelto e tradotto da Jean Gabin
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